giovedì 26 gennaio 2012

La Galassia Invisibile




Una città fantasma alla periferia del cosmo. Trabocca di materia, ma è avvolta nelle tenebre: le luci, se mai ci sono state, sono tutte spente. Così appare, sotto la lente d’ingrandimento gravitazionale, la galassia nana nella quale s’è imbattuto un team di astronomi guidato da Simona Vegetti, 32 anni ancora da compiere, ricercatrice post-doc al Dipartimento di fisica del MIT, il Massachusetts Institute of Technology.

Per individuarla sono stati necessari due strumenti, uno costruito dall’uomo e l’altro messo a disposizione dalla natura. Quello artificiale è l’occhio del telescopio Keck, alle Hawaii, la cui già invidiabile vista è stata resa ancor più acuta dall’ottica adattiva, in grado di annullare le distorsioni introdotte dalla turbolenza atmosferica. E quello naturale è l’anello di Einstein JVAS B19381+666, un sistema di lenti gravitazionali dal diametro d’un secondo d’arco scoperto negli anni Novanta.

Quello che Vegetti e colleghi hanno visto, se di vista si può parlare per un oggetto completamente buio, è una galassia satellite con una massa equivalente a circa 200 milioni di volte il nostro Sole. Ma lassù, di stelle, non c’è nemmeno l’ombra. Non solo: sembrano mancare all’appello anche le polveri, i gas e più in generale tutta quella materia ordinaria che conosciamo. L’ingrediente prevalente, se non l’unico, pare essere la sostanza enigmatica che costituisce circa un quarto di tutto il nostro universo: la materia oscura. Per capire un po’ meglio la portata di questa scoperta, Media INAF ha raggiunto Simona Vegetti nel suo ufficio di Cambridge, nel Massachusetts.

Una galassia di materia oscura è un caso unico, o se ne conoscono altre?

«La galassia appare scura nel senso che a quella distanza, e con i telescopi attuali, non siamo in grado di osservarne le stelle ed il gas. Non abbiamo infatti osservato questa galassia direttamente, ma misurando l’effetto gravitazionale della sua massa. Anche se al momento non possiamo dire con certezza se questa galassia contenga o meno qualche stella, le proprietà che abbiamo misurato ci dicono che deve comunque essere fatta per lo più di materia oscura. Più di quanto accade per una galassia come la Via Lattea. Circa un anno fa abbiamo scoperto un’altra galassia simile, ma più vicina e più massiccia. Queste sono le uniche galassie satellite dominate da materia oscura al di fuori della Via Lattea e al di fuori di Andromeda al momento conosciute».

E quante ne potrebbero esistere?

«Si pensa che la Via Lattea debba avere migliaia di piccole galassie satellite. Fino a ora, però, se ne sono osservate soltanto una trentina. Questo è un problema serio, e relativamente annoso, per le attuali teorie sulla formazione delle galassie. Una soluzione che consenta, allo stesso tempo, di salvare queste teorie è quella di assumere che le galassie satellite mancanti siano fatte solo di materia oscura, o che non contengano abbastanza gas e stelle per poter essere osservate con la strumentazione attuale: in pratica, significa ammettere che i satelliti esistono, ma non possiamo vederli. Una soluzione alternativa è quella d’ipotizzare l’inesistenza dei satelliti, ma implicherebbe modifiche alle proprietà della materia oscura, assumendola per esempio più calda di quanto non si ritenga ora».

Fra le due, quale le sembra più interessante?

«Al momento la prima soluzione è quella preferita dalla maggior parte degli astronomi, soprattutto perché le attuali teorie sulla formazione delle galassie, pur presentando qualche problema, sono in grado di spiegare la maggior parte delle proprietà osservate delle galassie e dell’Universo in generale. Ulteriori osservazioni come la nostra, ma anche di altro tipo, sono necessarie prima di poter dire che tali teorie siano davvero inadeguate. Personalmente, non ho una preferenza per una o l’altra soluzione. Certo, se le attuali teorie risultassero parzialmente non corrette, si aprirebbe un periodo interessante per l’astronomia, durante il quale nuove teorie dovrebbero essere formulate e testate».

Sentiamo spesso parlare di materia oscura fredda. Lei stessa, poco fa, accennava alla possibilità che sia più calda di quanto non si pensi. Ma fredda o calda a che punto? Qual è la temperatura della materia oscura?

«La temperatura della materia oscura si potrà misurare direttamente soltanto quando sapremo di quali particelle è fatta veramente. Al momento, possiamo basarci su osservazioni astronomiche per individuare un intervallo di temperatura entro cui la materia oscura dovrebbe trovarsi, dal quale possiamo poi dedurre il tipo di particella di cui è fatta. Al momento, si pensa che la materia oscura sia fredda: cioè, con una temperatura tra 0.5 e 2.0 KeV. Essenzialmente, la materia oscura deve essere abbastanza fredda da spiegare l’esistenza delle galassie più massicce e degli ammassi di galassie. Se in futuro scopriremo, per esempio con osservazioni come la nostra, che non esistono galassie con una massa più piccola di un certo valore, allora la materia oscura dovrà essere abbastanza calda perché questi oggetti non si formino. La massa della nostra galassia è al limite di quello che ci si aspetterebbe se la materia oscura fosse fredda, ma altri satelliti di questo tipo dovranno essere scoperti prima di poter confermare questa conclusione».

Che emozione si prova, a individuare un oggetto che per definizione non si può vedere?

«Dopo tanto lavoro, ottenere un risultato di rilievo come questo è sicuramente molto gratificante. È stata una bella sorpresa, non ci aspettavamo di poter trovare una galassia così piccola a questa distanza».

A proposito, ha già un nome, la vostra galassia oscura? O avete già idea di come battezzarla?

«Ho sempre pensato che fosse un po’ egocentrico dare nome agli oggetti che si scoprono. Credo mi piaccia lasciarla così, senza nome».

Pubblicare su Nature a nemmeno 32 anni non è da tutti. Qual è il segreto?

«In realtà, rispetto ai colleghi che vengono da paesi, tipo il Regno Unito, dove l’iter scolastico è più breve, non sono poi così giovane. E pubblicare su Nature credo sia una bella soddisfazione a tutte le età. Non penso esista una ricetta segreta: per me è stato importante lavorare e avere il supporto di persone che stimo, persone che posso definire amici oltre che colleghi, e la passione per questo lavoro. Spesso la ricerca può essere difficile e frustrante: l’importante è non farsi scoraggiare dalle difficoltà».

E prima d’arrivare negli Stati Uniti? Dov’è iniziata la sua carriera d’astronoma?

«Ho studiato al Liceo Linguistico di Aosta. Verso la fine del liceo ho capito che la mia vera passione non erano le lingue, ma la fisica. Così mi sono iscritta alla facoltà di fisica a Torino, dove mi sono laureata nel 2005. Mi sono poi trasferita per un dottorato in Olanda, all’Università di Groningen. Ho lasciato l’Italia soprattutto perché avevo voglia di fare un’esperienza all’estero. E sono molto contenta della mia scelta. Sia l’Olanda che gli Stati Uniti investono molto nella ricerca, e questo mi ha dato molte opportunità dal punto di vista professionale».

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2012/01/24/mimas-fa-capolino-dietro-dione/

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